File davanti ai supermercati, telefonate ai numeri di assistenza e messaggi nelle chat dei condomini: è la stessa scena che si ripete in diversi comuni italiani da quando sono arrivate le ricariche della Carta Dedicata a Te.
Molti destinatari l’aspettavano prima, altri l’hanno saputa solo per caso. Tra attese, ritardi amministrativi e regole chiare solo a metà, la misura pensata per sostenere famiglie in difficoltà torna al centro di una discussione accessa: la somma c’è, ma non tutto quello che si mette nel carrello è ammesso.
Arrivano i soldi ma crescono i dubbi sulle esclusioni
Le disposizioni ufficiali prevedono una ricarica di 500 euro destinata esclusivamente all’acquisto di generi alimentari. Il decreto attuativo emanato dal Ministero dell’Agricoltura è arrivato in ritardo rispetto alle attese, e per questo molte famiglie hanno visto slittare la disponibilità delle ricariche: un dettaglio che molti sottovalutano quando si parla di tempistiche burocratiche. L’accesso alla misura resta però ancorato a criteri precisi: serve un Isee non superiore a 15.000 euro e la presenza di almeno tre componenti nel nucleo familiare. Inoltre, non possono beneficiarne soggetti già titolari di altri sussidi statali come l’Assegno d’Inclusione, la Carta Acquisti o la Naspi.

Chi ha in famiglia minori ha ricevuto la precedenza, una scelta che il governo ha motivato con la necessità di tutelare i nuclei più vulnerabili. Al tempo stesso, la decisione di limitare la spesa ai soli prodotti alimentari rappresenta un ritorno alle regole originarie: non è più possibile usare la Carta per carburante o per biglietti del trasporto pubblico, come accadeva in una versione precedente dell’iniziativa. Un fenomeno che in molti notano solo nei centri urbani è la discrepanza tra catene di supermercati che hanno già aggiornato i sistemi di pagamento e negozi di quartiere ancora in attesa di istruzioni tecniche.
Cosa entra nel carrello e cosa resta fuori: la lista che divide
Nel dettaglio, il testo ministeriale elenca i prodotti ammessi: carne, pesce, uova, latte e derivati; pasta, pane e prodotti da forno; cereali e farine (riso, orzo, farro, avena, mais, e altri); frutta, verdura e legumi; conserve di pomodoro; semi e frutta secca; oli e aceti; bevande come acqua, tè e caffè; miele, zucchero, cacao e cioccolato; e prodotti per l’infanzia, oltre ai prodotti DOP e IGP. Questa lista mira a coprire le esigenze nutrizionali di base, ma lascia fuori categorie che per alcuni consumatori sono diventate essenziali.
In particolare, sono state escluse le bevande vegetali (latte di soia, mandorla, avena) e gli alimenti a base di soia o cereali come tofu, seitan, tempeh e burger vegetali. Per persone che seguono diete vegetariane o per chi è intollerante o allergico al latte, si tratta di prodotti proteici importanti: un aspetto che sfugge a chi vive in città dove sono più comuni alternative vegane. Un dettaglio che in molti sottolineano è la mancanza di una motivazione esplicita nella comunicazione pubblica sul perché queste categorie siano considerate non essenziali, oltre alla semplice appartenenza alla categoria “alimentare”.
La scelta normativa ha già acceso il dibattito nei municipi e tra le associazioni che assistono le famiglie: alcuni chiedono una revisione delle voci ammesse, altri puntano a soluzioni integrate (buoni complementari o voucher mirati) per coprire esigenze specifiche. Nel frattempo, mentre le ricariche arrivano e i carrelli si riempiono, resta la certezza di una misura che in Italia continua a essere uno strumento diretto di sostegno per le famiglie più fragili.
